Anno: 1993 – 2000
Formato: Serie OAV – 10 Episodi
Produzione: Tezuka Productions
Disponibilità: Yamato Video
“Sono convinto che i fumetti non debbano solo far ridere.
Per questo nelle mie storie trovate lacrime, rabbia, odio, dolore e finali non
sempre lieti” – Osamu Tezuka
I primi anni 70 sono considerati il periodo più difficile di
tutta la carriera di Osamu Tezuka: la sua rivista COM è costretta a cessare
ogni attività a causa di problemi aziendali, e come se non bastasse rassegna le
dimissioni dalla Mushi Production, lo studio di animazione fondato da lui
stesso nel 1961, il quale 2 anni dopo finisce in bancarotta, generando molto
clamore a livello mediatico. Nonostante l’addio, decide di caricarsi sulle
spalle tutti i debiti.
Inoltre, la critica reputa il suo lavoro ormai superato. Ai
nuovi autori è permesso lavorare in un clima diverso rispetto a Tezuka, in quanto
liberi dalla censura del dopoguerra e chiaramente più espliciti a livello di
storia e tematiche. Ciò li rendeva più interessanti agli occhi dei lettori.
Come sempre, anziché farsi trascinare dagli eventi, risponde
con grande caparbietà, realizzando in quella decade un numero elevatissimo di
opere, più che in ogni altra fase della sua vita professionale.
Tezuka, una delle figure più importanti della cultura
popolare nonché responsabile del boom dell’animazione televisiva in Giappone,
deve però confrontarsi con un paese in crisi in ogni settore produttivo.
Nel 1973 gli viene richiesto di scrivere una serie in
quattro parti al fine di celebrare i suoi personaggi più conosciuti. Black
Jack, creato solo per mantenere continuità nella storia, vi appare per la prima
volta.
Il successo riscosso è clamoroso: il manga si protrae per
oltre un decennio, fino ad incrociare gli anni 80, epoca di mutamenti e
globalizzazione, dove l’interesse per la cultura nipponica si espande a
dismisura all’estero.
Per la realizzazione dell’opera tornano utili gli studi di
medicina praticati da Tezuka presso l’università di Osaka.
Il mangaka diventa sempre più richiesto anche dai media
internazionali, ma è solo dopo la sua morte che il geniale chirurgo spesso
paragonato a Batman, ottiene la propria trasposizione animata.
Siamo nel 1993, e per la regia non viene chiamato un nome a
caso, bensì Osamu Dezaki, stretto collaboratore di Tezuka, fra i fondatori
della Madhouse nonché uno degli uomini più stimati alla Tokyo Movie Shinsa, il
quale dopo un periodo trascorso fuori dal paese, rientra in patria nello studio
di animazione aperto dal maestro 25 anni prima per gestire i suoi progetti
fumettistici.
Il character design, particolare e con maggiore propensione
verso i volti femminili, è del fidato Akio Sugino.
Al loro nome sono legate serie come Rocky Joe, Jenny La
Tennista, Space Adventure Cobra e Caro Fratello.
Il lavoro viene rilasciato sul mercato degli OAV, formato
redditizio che lungo gli anni ha permesso a numerosi registi di affinare la
propria arte (Kawajiri su tutti), giacché utile a sperimentare tecniche
alternative con un ritorno economico sicuro grazie alle licenze.
Dopo infatti numerose battute a vuoto nei cinema, si comincia
a stringere i fondi evitando rischi.
Black Jack è un viaggio all’interno del folklore nipponico,
una storia matura e d’avanguardia che rispecchia la realtà contemporanea, che
adegua l’animazione ai canoni del cinema e della letteratura, libera da futili convenzioni
narrative, che soddisfa anche gli spettatori più giovani cresciuti con videogiochi
e musica pop, mischiando innumerevoli generi.
Si passa dal militarismo a vicende dai forti contorni storici e politici, evidenziando l’aspetto drammatico, attraverso una molteplicità
di scelte stilistiche frutto della personalità poliedrica dell’autore, con un
ritmo narrativo più lento e meno incline al pragmatismo.
Ci viene presentato un prodotto duraturo e versatile dove
egli ha la possibilità di dare libero sfoggio alla sua fantasia con precisi
rimandi sociali e talvolta ambientalistici,
in un contesto privo tuttavia di riferimenti temporali.
Attraverso l’anticonformismo del protagonista, Tezuka
rigetta tutto il proprio disprezzo nei confronti delle istituzioni mediche.
In “Dieci Indagini Nel Buio” affiora il significato della
vita, di conseguenza scegliere la migliore fra queste 10 storie è un esercizio puramente
soggettivo.
Inutile dire che siamo dinnanzi ad uno dei capostipiti
dell’ambito preso in esame, ne raccomando pertanto la visione assieme al
lungometraggio “La Sindrome di Moira” del 1996.
Voto: 8